IL TRIBUNALE Nella causa iscritta al n. 1586/01 r.g.a.c., introdotta da Fiorenzoni Silvio nei confronti di Spinelli Roberto, Donati Donata, Insalaco Marco ed Insalaco Giacomo, letti gli atti e sciogliendo la riserva del 5 aprile 2002, ha pronunciato la seguente ordinanza. E' rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 269, secondo comma, c.p.c. nei termini di seguito indicati. 1. - Esposizione dei fatti. Fiorenzoni Silvio, con atto di citazione notificato il 29 giugno 2001, ha convenuto Spinelli Roberto, Donati Donata, Insalaco Marco ed Insalaco Giacomo davanti a questo tribunale per vederli condannati a risarcirgli i danni conseguenti ai vizi ed ai difetti manifestatisi sull'immobile di sua proprieta', assumendo la responsabilita' della controparte ai sensi dell'art. 1669 del codice civile. Si sono costituiti in giudizio tutti i convenuti. In particolare, i convenuti Donati ed Insalaco, costituendosi nel rispetto del termine di cui all'art. 166 c.p.c., hanno chiesto con la comparsa di Costituzione e risposta il differimento della prima udienza di comparizione al fine di poter chiamare in causa il terzo, Zurigo Assicurazioni S.p.a. A seguito di tale richiesta, questo giudice, con provvedimento del 30 novembre 2001, ha fissato nuova udienza per la data del 5 aprile 2002. A quest'ultima udienza di prima comparizione ex art. 180 c.p.c., il difensore dei convenuti Donati ed Insalaco ha chiesto la concessione di un nuovo termine per la citazione del terzo Zurigo Assicurazioni S.p.a., dichiarando di aver incontrato difficolta' nell'effettuazione della notifica, senza tuttavia fornire alcuna prova a tal proposito. A fronte di tale istanza, il difensore di parte attrice ha eccepito la decadenza dei convenuti dal potere di chiamare in causa il terzo, chiedendo la fissazione dell'udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c. e questo giudice si e' riservato di decidere. 2. - Rilevanza della questione. 2.1. - Nella fattispecie si impone la disamina della questione relativa alle conseguenze della mancata citazione del terzo ad opera del convenuto, una volta disposto il differimento della prima udienza di comparizione delle parti. Secondo l'attuale disciplina del codice di rito, il convenuto che voglia chiamare in giudizio un terzo deve a pena di decadenza: a) costituirsi nel termine di venti giorni prima dell'udienza; b) inserire nella comparsa di risposta sia la dichiarazione di voler chiamare il terzo sia la richiesta di spostamento della prima udienza (v. artt. 166, 167 e 269, secondo comma, c.p.c.). Il punto controverso nasce, invero, dalla parte conclusiva della disposizione di cui all'art. 269, secondo comma, c.p.c., ove si dice che la citazione e' notificata al terzo a cura del convenuto, senza che la norma preveda il potere del giudice di fissare un termine perentorio per l'estensione del contraddittorio. Diversamente, per il caso di chiamata del terzo ad opera dell'attore, l'art. 269, terzo comma, c.p.c. prevede il potere del giudice, ove questi ritenga di autorizzare la richiesta della parte istante, di fissare un termine perentorio per la notifica ad opera del medesimo attore. La fissazione del termine perentorio entro cui effettuare la chiamata del terzo e' anche prevista, dal sistema vigente, per l'ipotesi in cui la richiesta sia avanzata da un altro terzo chiamato in causa, come si evince dall'art. 271 che richiama espressamente il terzo comma dell'art. 269 c.p.c. (cfr., in questo senso, l'ordinanza n. 241 emessa dalla Corte costituzionale in data 4 luglio 2001). La mancata previsione del potere del giudice di fissare il termine perentorio nel caso di chiamata del terzo da parte dell'originario convenuto porta a ritenere che l'omessa citazione del terzo per l'udienza fissata dal giudice non comporti la decadenza, per cui sussiste la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale. Infatti, ove la norma impugnata risultasse illegittima, nella parte in cui non prevede la fissazione di un termine perentorio per la citazione del terzo da parte del convenuto, dovrebbe rilevarsi la fondatezza dell'eccezione di decadenza sollevata in questo giudizio dalla difesa dell'attore, in quanto la parte convenuta non ha neppure fornito la prova di aver tentato l'estensione del contraddittorio. Diversamente, ad analoga conclusione non potrebbe pervenirsi sulla base della disciplina attualmente vigente, non essendo possibile sanzionare l'inerzia dei convenuti con la sanzione della decadenza in mancanza della previsione di un termine perentorio entro cui compiere l'atto processuale, sia perche' i termini per il compimento degli atti del processo possono essere stabiliti dal giudice anche a pena di decadenza solo se la legge lo permette espressamente, sia in ragione del fatto che i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori in difetto di espressa dichiarazione della perentorieta' di essi (art. 152 c.p.c.). Si aggiunga, sempre in punto di rilevanza della questione, che nella fattispecie non sarebbe applicabile l'istituto della remissione in termini ex art. 184-bis c.p.c. (istituto ritenuto applicabile, secondo un orientamento che questo giudice condivide, anche nella fase di verifica della corretta instaurazione del contraddittorio), posto che gli istanti non hanno fornito neppure la prova di aver tentato senza esito la notifica per cui non vi sarebbe la possibilita' di ravvisare il presupposto della non imputabilita' della causa che ha condotto alla decadenza. Di conseguenza, ove la questione in esame fosse ritenuta fondata, dovrebbe essere dichiarata la decadenza dei convenuti Insalaco e Donati dal potere di chiamare in causa il terzo Zurigo Assicurazioni S.p.a., senza alcuna possibilita' di remissione nei termini. 2.2. - Impossibilita' di un'interpretazione adeguatrice. Il risultato che si intende perseguire con l'intervento correttivo qui proposto non e', d'altra parte, conseguibile tramite una interpretazione che ricostruisca la norma impugnata in modo da attribuirle un significato normativo che non sia in contrasto con i parametri costituzionali che verranno indicati. Tale risultato, infatti, sarebbe perseguibile solo ove sussistesse la possibilita', sulla base della normativa vigente, di applicare la sanzione della decadenza del convenuto dal potere di chiamata del terzo in caso di mancata citazione di questi per l'udienza fissata dal giudice. Tuttavia, una simile interpretazione adeguatrice non e' praticabile, sia in virtu' del principio del nostro sistema processuale, gia' richiamato precedentemente, secondo cui il termine perentorio per il compimento dell'atto processuale puo' essere stabilito dal giudice solo in caso di espressa previsione di legge (art. 152 c.p.c.), sia in ragione dell'argomento contrario che si ricava dalla disamina delle differenti disposizioni di cui ai commi secondo e terzo dell'art. 269 c.p.c. Parte della dottrina ha osservato che la diversita' di disciplina determinata dalle due norme menzionate deve ricondursi ad una svista del legislatore, arrivando taluni a sostenere che si tratterebbe di un'omissione da considerare meramente formale e dunque non idonea ad escludere il potere del giudice di rilevare la decadenza in caso di mancata citazione del terzo da parte del convenuto. Tale ricostruzione non e' condivisibile in quanto porta a ritenere possibile la comminatoria della sanzione della decadenza anche in difetto di una esplicita previsione di legge. Non solo, ma la differente disciplina, prevista dalle norme di cui al secondo ed al terzo comma dell'art. 269 c.p.c., costituisce proprio un argomento che milita contro la interpretazione adeguatrice de qua, dovendosi desumere da essa la volonta' del legislatore di disciplinare in maniera diversa le due situazioni processuali. Quest'ultima conclusione trova un ulteriore elemento di conforto nei lavori preparatori, che possono essere utilizzati sia pure in via sussidiaria per l'esatta ricostruzione della ratio legis. Infatti, nel testo approvato dal Senato si prevedeva, sia per l'attore sia per il convenuto, che la notifica dovesse avvenire nel termine perentorio di giorni quindici, mentre nel corso della discussione alla Camera si e' distinta la posizione del convenuto da quella dell'attore (e, di conseguenza, da quella del terzo chiamato), essendo definitivamente scomparso il termine perentorio per il solo convenuto. Pertanto, quest'ultima omissione sembra rispondere ad una precisa scelta del legislatore, in guisa che questo giudice - dubitando della legittimita' costituzionale di tale scelta - non puo' che rimettere la questione alla Corte delle leggi. 3. - Non manifesta infondatezza della questione. 3.1. - In relazione all'art. 3 della Costituzione. In primo luogo, l'art. 269, secondo comma, c.p.c. appare in contrasto con il parametro della ragionevolezza direttamente evincibile dal principio di uguaglianza stabilito dall'art. 3 della Costituzione, in quanto la normativa vigente configura una ingiustificata disparita' di trattamento di situazioni sostanzialmente identiche. In particolare, si ritiene ingiustificato il diverso regime normativo rispetto al potere del giudice di fissare il termine perentorio per la chiamata del terzo a seconda che la iniziativa sia promossa dal convenuto ovvero dall'attore e dal terzo chiamato. Pare, anzi tutto, necessario fissare i termini di comparazione del giudizio di raffronto. La Corte delle leggi, affrontando una questione di legittimita' costituzionale proprio dell'art. 269, secondo comma, c.p.c. (anche se sollevata in termini diversi da quelli in esame), ha avuto modo di precisare che per verificare che sia garantita alle parti un'identita' di trattamento, la comparazione dei poteri ad esse attribuiti deve essere eseguita con riferimento ad uno stesso momento processuale (Corte costituzionale, sent. n. 80 del 1997). Cio' ha portato la Corte stessa a concludere che la previsione dell'insindacabilita' nel merito, da parte del giudice, del potere del convenuto di chiamare in causa il terzo non si pone in contrasto con la disciplina che prevede l'autorizzazione per la chiamata del terzo ad opera dell'attore, in quanto le due richieste si riferiscono a momenti processuali diversi. In altri termini, l'insindacabilita', da parte del giudice, del potere di chiamare il terzo ad opera del convenuto non deve essere posta in comparazione con la possibilita' per l'attore di chiamare il terzo a seguito delle difese del convenuto, bensi' con la facolta' del medesimo attore di scegliere liberamente i soggetti da convenire in giudizio al momento della introduzione della causa. Tuttavia, quest'ultima osservazione non giustifica anche la diversita' di disciplina relativamente al potere del giudice di fissare il termine perentorio entro cui effettuare la chiamata del terzo. Infatti, una volta garantita la parita' di trattamento in punto di poteri di definizione del thema decidendum, esigenza questa assicurata con l'insindacabilita' nel merito della richiesta del convenuto di chiamare qualsiasi terzo, le posizioni processuali delle parti sono sostanzialmente identiche per quanto concerne l'onere processuale di convenire in giudizio il terzo. A sommesso avviso di questo giudice, in altre parole, le posizioni processuali in cui vengono a trovarsi, rispettivamente il convenuto che abbia ottenuto il differimento della prima udienza e l'attore ed il terzo chiamato dopo aver avuto l'autorizzazione del giudice alla chiamata, sono utilizzabili come termini di comparazione per il giudizio di raffronto costituzionale: in tale momento, pertanto, le parti devono essere poste in grado di compiere le medesime attivita' con eguali poteri. Del resto, la stessa Corte costituzionale, con la pronuncia n. 80/1997 gia' citata, ha stabilito che, una volta definito il thema decidendum, qualunque altra istanza difensiva non puo' non essere sottoposta al controllo del giudice, al quale e' rimessa sia la valutazione della utilita' processuale, sia il controllo della tempestivita' della richiesta, particolarmente incisivo nell'attuale regime di preclusioni. Ma quest'ultima osservazione non puo' che essere interpretata nel senso che il giudice deve poter controllare non solo la tempestivita' della richiesta di potersi avvalere di una facolta' processuale, ma anche il tempestivo compimento dell'atto processuale inerente alla medesima facolta', giacche' diversamente il proposito normativo di un regime rigido di preclusioni risulterebbe un mero flatus vocis. La disciplina vigente, invece, assicura la parita' di trattamento solo relativamente al primo tipo di controllo. Infatti, la verifica sulla tempestivita' della richiesta di poter chiamare un terzo e' assicurata, per quanto concerne il convenuto ed il terzo, dalle norme di cui agli artt. 166, 167 e 269 (secondo e terzo comma, a seconda, rispettivamente, che si tratti del convenuto o del terzo) e, per quanto riguarda la posizione dell'attore, tramite la previsione della necessaria autorizzazione del giudice che deve valutare che l'esigenza sia insorta a seguito delle difese del convenuto. Diversamente, il controllo sul tempestivo esercizio del potere di chiamata del terzo non e' disciplinato in maniera uniforme, tanto che cio' fa dubitare della legittimita' costituzionale della normativa. In effetti, mentre l'attore ed il terzo, dopo aver ottenuto l'autorizzazione da parte del giudice, debbono procedere alla citazione nel termine perentorio stabilito dal giudice, il convenuto, dopo aver ottenuto il differimento della prima udienza, non ha l'onere di effettuare la citazione entro un termine perentorio, nonostante - si ripete - che le posizioni processuali risultino comparabili. Nel caso, poi, del confronto tra convenuto originario e terzo la identita' dei termini di comparazione appare evidente: entrambi, infatti, debbono costituirsi venti giorni prima dell'udienza di comparizione al fine di ottenere il differimento dell'udienza per la citazione del terzo, per cui non appare giustificabile - in relazione al momento processuale - la differente disciplina in punto di fissazione del termine perentorio (oltre che quella in ordine alla necessaria autorizzazione del giudice prevista solo per la richiesta del terzo, ma questo aspetto non rileva nella fattispecie). Di conseguenza, la sostanziale identita' delle posizioni processuali delle parti, cioe' del convenuto, del terzo e dell'attore (questi ultimi, una volta ottenuta la autorizzazione alla chiamata), non giustifica la mancata previsione del potere del giudice di fissare il termine perentorio entro cui il primo deve effettuare la citazione. Nella specie, si tratta invero di un giudizio di raffronto in cui il tertium comparationis evocato costituisce un termine di paragone meno favorevole alla parte, ma la Corte si e' gia' pronunciata per l'ammissibilita' della questione anche in questi termini (Corte Cost., sent. n. 233/1995 e sent. n. 62/1994). Del resto, la disparita' di trattamento evidenziata non puo' che essere risolta con un intervento correttivo della norma di cui all'art. 269, secondo comma, c.p.c., posto che - come gia' rilevato in precedenza - il sistema rigido di preclusioni cui e' informato il nuovo codice di rito mal si concilia con una disciplina che preveda il potere di controllo del giudice in punto di tempestivita' delle richieste delle parti e non anche in merito alla tempestivita' degli adempimenti degli atti processuali conseguenziali alle medesime richieste. Tale tipo di intervento, inoltre, risulta maggiormente compatibile con il principio di ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 della Costituzione, come meglio argomentato di seguito. 3.2. - In relazione agli artt. 24 e 111 della Costituzione. L'art. 269, secondo comma, c.p.c., appare anche in contrasto con gli artt. 24 e 111 della Costituzione, quest'ultimo come integrato dalla legge costituzionale n. 2 del 1999. Infatti, la possibilita' per il convenuto di reiterare alla prima udienza fissata dal giudice l'istanza di concessione di un nuovo termine per la chiamata del terzo, senza che tale richiesta possa essere sindacata nel merito dal giudice, rende l'attore completamente succube delle iniziative dilatorie del convenuto, con cio' paventandosi una violazione: a) del diritto di difesa della parte attrice (art. 24 Cost.); b) dell'esigenza che il giudizio si svolga in condizioni di parita' (posto che la stessa possibilita' non e' riconosciuta all'attore ed al terzo chiamato che non abbiano citato il terzo entro il termine perentorio) nonche' del principio di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.).